Dopolavoro Nostalgia
Editoriale di Stefano Lavorini.
Osservo. Nessun compiacimento nel riconoscermi diverso. Nulla della pericolosa arroganza, che viene da quell’idea di sentirsi per certi versi superiori, solo perché capaci di farsi spettatori disincantati di una commedia, di cui intuiamo trama e scopo.
Seduto al tavolo di un dopolavoro ferroviario, di quelli di una volta, attendo di cenare mentre ascolto le voci intorno, il loro colore: «due seppie e due patate fritte». Il rapporto tra avventori e oste è risolto nella sua necessità, con reciproca soddisfazione.
Tutto sembra organizzato per dare conforto all’appetito delle persone e alle attese del proprietario del locale, che fa diligentemente e con partecipazione il proprio lavoro.
Una campana batte le ore e intravedo il campanile con tanto di orologio illuminato, a segnare un tempo che sembra ormai anacronistico, eppure vero. Altro che digitale!
Sorride affabile la cameriera che, con sfacciata naturalezza, interloquisce con ragazzi e uomini di tutte le età e provenienze. Sorride alla vita che, seppur faticosa, pare per lei avere un senso nel suo ripetersi quotidiano. Non prende le ordinazioni ma, garbata, come inconsapevole levatrice, fa venire alla luce i desideri di coloro che la possono guardare solo dal basso all’alto.
«Volete il caffè?». «Tre bastano e avanzano! Ma portaci anche una grappa» sento dire a gente dalla faccia stanca, dalle grosse braccia, che per prima cosa non chiede da bere, ma sollecita un saluto... Il resto verrà. Una familiarità che suona più intima di quella domestica, libera da qualsiasi obbligazione, scelta per piacere ogni volta che si decide di varcare quella soglia.
«Non ho il tacchino ho solo la bistecca di maiale... Ma se è piccolina, te ne faccio fare due»: una frase che spazza via tutte le segate sulla customer satisfaction scritte in cento libri.
Qui non si vende muffa di idee, ma concretezza di fatti.
Si parla di internet, di Sky, di capsule di caffè, ma tutto sembra sotto controllo, come parte di un mondo in cui a un’azione corrisponde una reazione, che si può capire, prevedere.
«Il mio fidanzato... mi ha lasciato» colgo appena le parole di Veronica, la cameriera, che risponde alla domanda di una curiosa signora délabrée: parole che mi fanno quasi sentire come se, in fondo, negli ultimi cinquant’anni, tutto quello che è successo al mondo non potesse non accadere.
Come se la volontà, l’impegno, il sacrificio di tanti fosse stato metabolizzato, al pari di un fatto imprescindibile e inevitabile.
«Due a zero bastardi»: il commento sale forte alle immagini della televisione che, muta, illumina la stanza con le immagini della partita di turno.
Le ragazze vanno tra i tavoli, ancora leggere come farfalle e non sembrano accusare stanchezza. Sorridono a un futuro che, prima di tutto, vogliono migliore.
I piatti sono ormai vuoti, poche persone si attardano ai tavoli, l’attesa del sonno e del domani ha ormai campo.
Eppure ancora un sorriso, ancora un motto bonario, a suggellare che un altro giorno è passato, come ricorda il rintocco delle campane. Domani si vedrà.