Il buon senso della convenienza

L'editoriale di Stefano Lavorini.

Busso alla vostra porta, cari lettori. Si può entrare? Io non ho preferenze: un operatore di linea, un titolare d’impresa, un addetto alla progettazione meccatronica o un esperto di marketing, a me basta essere ascoltato da voi senza superbia e senza diffidenza.

Sono persona curiosa e nulla mi piace tanto quanto visitare una fabbrica, uno stabilimento di un costruttore o di un utilizzatore, in cui l’imballaggio la fa da padrone: indugiare nel reparto produttivo, nel magazzino, negli uffici, nella mensa e nei bagni ricercando così, attraverso la dotazione e la disposizione di mezzi e attrezzature, l’organizzazione degli spazi, i colori e i profumi che caratterizzano l’ambiente di lavoro… l’anima dei padroni di casa e delle persone che la vivono.

Le prime impressioni possono ingannare. Eppure, più vivo, più osservo, più mi persuado che vi è realmente analogia fra “l’abitazione e l’abitante”.

Il buon gusto, poi, ha tante facce quante sono le personalità. È vero che da qualche anno, il buon gusto va affinandosi e introducendosi anche nei remoti cantucci di provincia, relegando in cantina la varia chincaglieria, prova inintelligibile della storia dell’azienda: i quadri di Napoleone a cavallo, i divanetti in finta pelle con impunture, le macchine smembrate e abbandonate in produzione o nei piazzali… Ma non è men vero che abbonda ancora il “falso” buon gusto e che il “vero” manca più di quanto si creda. Ma più di esso, difetta spesso un elemento essenziale di bellezza e di benessere, che potremmo chiamare il criterio della convenienza.

Di questi tempi dilaga uno stile a cui non so dare nome, ma che ricorda nell’artificio ambiguo i sogni di uno squilibrato. Qualcuno mi dirà subito che si sente che ho i capelli bianchi… Eppure io non sono insensibile al grido di libertà, che spezza anche vetuste catene d’arte. Ma dopo aver visitato alcuni luoghi del fare, che danno l’impressione d’un incubo voluttuoso ed esasperato, mi domando: «Quanto tempo si possono sopportare degli artefatti simili?».

La scelta di come progettare un’azienda è, insomma, una delle cose più ardue per chi è in attività, sia che appartenga a quella condizione in cui abbonda più il buon gusto che il denaro, sia che una nuova ricchezza non ancora educata consigli di valersi del sicuro gusto altrui.

Non disperiamo. C’è nei nostri imprenditori, nella nostra classe dirigente, un’intuizione così pronta, un senso così vigile di osservazione e di assimilazione, che ove ridicolo esista, non tarderà a cedere il posto all’educazione che smorza la canzonatura e impone rispetto. Ora, quanto impiegheranno i nuovi ricchi ad acquisire se non altro quella livellatrice apparenza che li metterà al pari dei veri signori? Non molto, se porranno in cima ai loro pensieri un’intelligente moderazione e quel buon senso della convenienza che io vado lodando.

Avvertenza. Testo redatto parafrasando il libro “Dalla Cucina al Salotto”, nuova edizione riveduta e ampliata da Lidia Morelli, S. Lattes & C. Editori, Torino-Genova, 1927.

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