Dove andavamo? Si sa forse dove si va?
L'editoriale di Stefano Lavorini
A partire dalle domande richiamate nel titolo(1), Denis Diderot - tra i massimi rappresentanti dell’Illuminismo - svolge un suo pensiero, annotandolo come post scriptum alla “Interpretazione della natura” del 1754:
«Giovane, ancora una parola e ti lascio. Abbi sempre presente alla mente che la natura non è Dio; che l’uomo non è una macchina; che un’ipotesi non è un fatto: e sta’ sicuro che non avrai ben compreso, là dove crederai di scorgere qualcosa di contrario a questi principi».
Un richiamo forte e diretto alla necessità di una costante e continua verifica delle proprie idee, così da trasformarle nella pratica quotidiana da semplici ipotesi a fatti concreti.
Una buona prassi, quanto mai attuale, anche alla luce di quanto abbiamo vissuto in questa prima parte del 2020.
Finora, dentro al mondo che conoscevamo, ci siamo sentiti come individui e come collettività ragionevolmente forti e sicuri… ma è bastato un evento straordinario per farci tornare al passato, al ricordo e all’esperienza personale di paure ancestrali.
Sono stati mesi, questi ultimi, di vivace scambio di affetti e ripulse, di slanci, di fiducia nelle proprie (altrui) forze, ma anche momenti in cui abbiamo riscoperto fragilità e precarietà: un vero trauma per molti ma, a dirla tutta, per altri, forse più allenati a un esercizio di genere morale, solo un po’ di sofferenza in più, un modesto contributo alle avversità della vita.
Abbiamo sentito ripetere in ogni dove gli stessi temi e problemi, ci sono stati proposti infaticabilmente gli stessi quesiti e una varietà di soluzioni spesso improbabili, accomunate nella sostanza dalla presa di distanza dall’attuale modello economico e sociale, nonché dall’attesa messianica per la nascita dell’Uomo Nuovo.
Abbiamo sfiorato i frammenti di un diverso modo di pensare e di sentire, ma questa visione, sulle prime tanto potente, va già smarrendo forza in un numero crescente di aspettative e di esigenze poste dal presente.
E allora ecco il difficile compito di ri-fare gli italiani (per restare nel nostro), ovvero di dare il pane a tutti, di correggere le ingiustizie sociali da anni in crescita, di trovare un’armonia davvero sostenibile con l’ambiente in cui viviamo, andando contro gli istinti di sopraffazione e l’ambizione per il successo sempre e comunque.
Vanità della vanità…
D’altronde «senza una rinuncia “all’avere” non si rifondano le ragioni di un’umanità più ampia, non si ricostruisce l’immagine dell’uomo su basi diverse dall’egoismo, la lotta selvaggia per l’affermazione di sé e dei suoi appetiti»(2).
Come il paladino Astolfo, nell’Orlando Furioso dell’Ariosto, la sfida che abbiamo davanti è dunque quella di affrontare un viaggio iniziatico per arrivare a recuperare il senno fuggito, il raziocinio… non quello di Orlando pazzo per amore di Angelica, ma il nostro, perso a causa del tempo e della sorte.
Abbiamo forse ancora qualche speranza, «perché non sono ancora trascorsi molti anni dacché uno spirito virile degno di ammirazione voleva dire un uomo, il cui coraggio era coraggio morale, la cui forza era la forza di una convinzione, la cui saldezza era quella del cuore e della virtù; un uomo che considerava la velocità come una cosa da ragazzi, la finzione una cosa illecita, la volubilità e l’enfasi una cosa indecorosa»(3).