Io faccio quello che sono

Editoriale di Stefano Lavorini. Metti un pomeriggio del penultimo giorno a interpack: seduto in compagnia di Simona Michelotti nel bello stand della “sua” SIT, approntato con entusiasmo e partecipazione fuori dal comune per la fiera di Duesseldorf, approfitto di un raro momento di quiete per fare con lei il punto della situazione.


Come spesso è accaduto, inevitabilmente, finiamo per parlare dei percorsi della razionalità e dell’emotività, che si snodano tra bisogno di equilibrio, capacità di sorprendersi, apertura all’altro e confronto con il mondo.
Temi che sembrano dissonanti rispetto a quanto ci scorre intorno, alle parole d’ordine che dicono di opportunità di business, di innovazioni tecnologiche, di numero dei visitatori, trascurando che tutto e comunque è da ricondursi all’interazione tra individui, ovvero al “copione che provvediamo continuamente a scrivere e riscrivere attraverso le nostre molteplici esperienze”.

Simona Michelotti testimonia da sempre una connaturata cura maniacale dell’azienda, che sembra essere sostanza grezza da cui estrarre una sorta di quintessenza, delicatissima e intima; una materia sensibile che usa per elaborare progetti di una forza e un’energia rare. Che derivano da una convinzione di fondo: «L’imprenditore è il primo a dover fare sacrifici: in famiglia, come in fabbrica, è stato il senso di responsabilità a guidarmi sempre».
La provoco garbatamente, chiedendole se nella sua vita si sia sentita davvero libera nel fare le scelte che ha fatto. Non ha esitazioni. «Sul lavoro sì: ho sempre fatto quello che reputavo giusto e non mi sono mai sottomessa a niente e a nessuno… “piuttosto mangio pane e cipolla”, mi dicevo, ma quella cosa lì, no! Nella vita è stato più difficile. Avrei voluto andare a Roma a fare l’interprete parlamentare, e invece a 22 anni ho dovuto farmi carico dell’impresa fondata da mio padre. Quando ho iniziato le cose non andavano bene e così ho cercato e trovato l’aiuto di una persona sensibile e intelligente, che è stata mio socio fino al 1996. Una vera fortuna averlo incontrato e aver capito subito che non si baratta la propria integrità con il denaro o con la mancanza di partecipazione a un progetto comune».

L’aver fatto della SIT una delle aziende leader nella stampa di imballaggi flessibili diventa, oggi, un invito a entrare in un tragitto per vederne lo svolgimento futuro. Un racconto che scorre dalle inafferrabili verità dell’infanzia, si inoltra nei sentieri della fantasia e si arrampica su ostacoli iperbolici e imprevedibili… come quello, solo apparentemente secondario, della realizzazione dello stand per interpack.
«Quanto vedi intorno - mi dice - è frutto di progetto che nasce dalla sofferenza per un rapporto con una persona cara, che mi è stata vicina per tantissimi anni e che sembrava finito. Nonostante le difficoltà, però, abbiamo ritrovato comune slancio nella scoperta dello street artist brasiliano Eduardo Kobra e della sua straordinaria sensibilità nei confronti dei colori.
L’artista trasforma le cose, le rende belle e Kobra non dà solo colore a quello che fa, ma esprime un sentimento che ti entra dentro. In occasione delle Olimpiadi ha realizzato un murale di 3 mila metri quadri, rendendo splendido e luminoso anche il porto di Rio de Janeiro.
In fondo anche noi facciamo lo stesso con i materiali: da “insignificanti” li rendiamo attrattivi e capaci di parlare a molti. Noi non siamo capaci di fare le cose con le mani, ma le facciamo con le macchine… Così, per noi, non è solo “stampare”, ma raggiungere l’eccellenza».

Facile comprendere le ragioni del “colore”, ma insistendo le chiedo come è stato scelto il tema delle opere riprodotte sullo stand, ovvero quello di una mamma che protegge il proprio figlio, e di un figlio che si sente protetto da lei. Un motivo che potrebbe essere traslato, riferendoci alla sicurezza, anche nei rapporti fra fornitore e cliente.
«Per superare le reticenze dello street artist abbiamo messo in campo tutto il nostro sentimento nel descrivere lo spazio in fiera come una casa, dove lui avrebbe potuto lavorare liberamente. Inoltre, gli abbiamo commissionato un murale per il nuovo stabilimento a San Marino: 1000 metri quadri di parete esterna, senza finestre.
È stato però Kobra a scegliere il tema della madre (probabilmente dopo aver visto le foto di Simona Michelotti e della figlia Neni Rossini, Ndr.), dichiarando da subito di non voler imposizioni di sorta. Poi c’è stata anche la dolorosa concomitanza tra la presentazione delle opere e la morte di mia madre, e così le mamme di Kobra sono diventate un omaggio carico di affetto e tenerezza per lei».

Ascolto questa bella storia, sofferta e vissuta, che illustra il sentire di una donna, il suo fare impresa secondo le regole, sempre cercando qualcosa che vada oltre il puro oggetto commerciale.
Mi sembra di udire gli echi di un passato in cui il denaro, come direbbe Umberto Galimberti, non era ancora stato eretto a generatore simbolico di tutti i valori, e quindi anche del valore personale.
Una storia di tanti anni, che continua a guardare al futuro.  
«Oggi si naviga a vista ed è arduo immaginare come cambierà il mondo. Per questo voglio mettere l’azienda nella condizione di affrontare qualsiasi sfida. Bisogna essere coraggiosi.
Alla mia età sento di avere un’unica, grande responsabilità: garantire la continuità dell’impresa che, per 550 persone è ragione di vita. Garantire un futuro a loro e alle loro famiglie (che sono magari nate grazie a noi). Ecco, questo è quello che mi coinvolge di più dal punto di vista emotivo. Per questo da tempo lavoro alla riorganizzazione dell’azienda, portando avanti, con giudizio e non senza fatica, il processo di delega e inserendo nuovi manager e nuove figure professionali. Ormai fanno quasi tutto gli altri, ma ci vorranno almeno ancora due o tre anni per portare in porto questa trasformazione».
E allora, alla prossima, cara Simona.
 

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