Aetna: l’ottimismo della ragione

Il contributo dei giovani; l’azienda come bene condiviso; il senso dell’internazionalizzazione; l’orientamento dell’innovazione... Le riflessioni di Alfredo Aureli, Presidente Aetna Group,
in un’intervista raccolta a Interpack, in cui l’imprenditore spiega perché essere ottimisti è ragionevole.

Essere ottimisti quando si guida un grande gruppo globalizzato e solido, a dispetto delle crisi che rallentano la ripresa, è facile - potrebbero chiosare gli “altri”, quelli col mal di mare cronico per il violento su e giù dei marosi dell’economia. Ma, a rigor di logica, varrebbe anche l’incontrario, perché invece facile non è “pensare positivo” quando si ha la responsabilità di un’azienda articolata e complessa, ogni giorno alla prova su mercati diversi, ciascuno con le proprie logiche e, naturalmente, in continuo divenire.
È stato dunque interessante sentire dal presidente del gruppo Aetna, Alfredo Aureli -a Interpack insieme ai figli Enrico e Valentina (oggi rispettivamente Amministratore Delegato e Vicepresidente nonché AD del gruppo), perché è così fiducioso sul futuro. Anzitutto della propria impresa, ma non solo.

Come sta andando Aetna Group dopo il passaggio di gestione alle nuove generazioni?
Sta andando bene, sia per questioni di merito (i miei successori sono bravi) sia di fortuna... e un po’ di fortuna ci vuole, sempre.
Tutti gli imprenditori sognano di “passare” l’azienda ai figli ma, per certo, la continuità di gestione non si può imporre. Diciamo che richiede almeno due condizioni: la prima è che le nuove generazioni crescano grazie un loro percorso formativo e che siano in grado di portare competenza e visione in azienda, non solo il cognome del proprietario.

E la seconda?
La seconda è che le generazioni precedenti possano assicurarsi il rispetto dei valori in cui credono e sappiano, col tempo, farsi da parte, come mio padre fece con me.

Nella sua storia c’è, però, un fattore difficilmente replicabile: quel senso di urgenza che animava gli imprenditori appena usciti dal dopoguerra.
Direi che, seppure in maniera diversa, l’urgenza esiste anche oggi, generata da questa lunga crisi, dalla globalizzazione, dal confronto con le logiche diverse di competitor emergenti... Fattori nuovi e nuove difficoltà che possono essere molto motivanti. Senza contare che oggi, rispetto al passato, abbiamo accesso a molte più informazioni, ed è un vantaggio.

C’è stata un’occasione particolare che, operativamente, ha sancito in Aetna il passaggio delle consegne?
No, tutto è avvenuto in modo graduale. Un’azienda, ovviamente, ha bisogno di crescere e non può fare a meno di una struttura manageriale, dunque l’avvicendamento ai vertici è necessario e fisiologico. Detto questo, essere azionista di per sé non garantisce di avere le capacità necessarie a guidare un’impresa: bisogna saper essere obbiettivi.

Intende dire che un’azienda ha, per così dire, un suo “diritto alla sopravvivenza e alla crescita” che prescinde dall’essere proprietà di qualcuno?
Esattamente: l’azienda è un bene privato e allo stesso tempo condiviso, con una responsabilità sociale precisa dovuta al fatto di non essere costituita solo di capitali ma anche e soprattutto di uomini, valori, riferimenti. L’imprenditore deve, dunque, essere capace di superare il concetto di proprietà sapendo che gestisce un bene che, in qualche modo, appartiene anche alla collettività.

Come procede l’attività del gruppo nel segmento delle macchine semiautomatiche, dove la concorrenza dei produttori del Far East è più sensibile?
Ritengo che anche qui possiamo, e dobbiamo, mantenere il vantaggio competitivo. E non solo con la nostra capacità di innovazione, la nostra creatività e il saper cogliere gli stimoli che ci arrivano dall’essere grandi esportatori, in grado di orientare correttamente lo sviluppo dei prodotti… Ma anche facendo sì che, intervenendo a livello organizzativo e produttivo, l’incidenza della mano d’opera sul costo del manufatto diventi un fattore meno dirimente. Diventare internazionali, infatti, non significa “delocalizzare” per risparmiare sul costo del lavoro, appunto, ma produrre in altri paesi per rispondere alle loro esigenze.

E infatti alcune produzioni stanno ritornando in Italia. Si tratta ancora di qualche caso isolato, ma non è un segnale da poco.
Beh, non avremmo neppure dovuto permettere di spostare l’attività all’estero: è un furto fatto all’Italia. D’altro canto, bisogna capire quali motivi hanno spinto e spingono l’imprenditore ad andare via. Ad esempio, i vincoli di un’assunzione a tempo indeterminato: io non sono in grado di garantire alle persone che assumo “il posto per tutta la vita”; mi piacerebbe poterlo fare, ma devo avere la flessibilità necessaria per adeguare l’organizzazione alle esigenze reali dell’azienda. Il che, chiaramente, non significa ledere o calpestare i diritti dei lavoratori.

Le aziende del gruppo Aetna fanno produzioni locali per i mercati asiatici?
Sì, di macchine piccole e grandi. In generale, i volumi relativi alle macchine semi-automatiche sono tali da consentire l’avvio di una produzione a livello industriale, con le relative economie di scala e, dunque a costi competitivi. Le macchine automatiche, invece, seguono una lavorazione più artigianale, vengono prodotte in volumi più limitati e, quindi, produrre e vendere in loco è opportuno. A dispetto poi del gap tecnologico e dell’assenza di un indotto, che in Italia fa spesso la differenza, troviamo del buon know how anche a Est del mondo.
 
Quali sono i mercati lontani più vivaci? E qual è la vostra chiave d’accesso?
Vendiamo in Cina, Stati Uniti, Brasile. E anche in questi paesi non ci proponiamo come produttori ma come partner dei nostri clienti: loro comprano una macchina per stabilizzare e proteggere il carico e noi li aiutiamo a consumare meno film, limitare gli sprechi, spendere meno. Siamo i soli a offrire questo tipo di assistenza, molto apprezzata. Un esempio su tutti aiuta a capire che non si tratta di mera retorica. Walmart, prima azienda distributrice al mondo per fatturato e dipendenti, dichiara di perdere più di due miliardi di dollari all’anno per i danni subiti dalla merce durante il trasporto. È uno spreco enorme e, dal canto nostro, siamo impegnati a ridurlo: ecco perché studiamo e lavoriamo a contenere il deterioramento del materiale, cerchiamo il film più adatto a stabilizzare il carico, facendo risparmiare all’utilizzatore dal 30 al 40% di materiale (con un pay back dell’investimento inferiore agli 8 mesi), “stiriamo” il film anche del 480%, misurando la tenuta negli angoli con sensori che mostrano a ogni giro quanti chili è in grado di reggere... Si tratta di competenza, ma anche e in primo luogo di rispetto del cliente.

Insomma, gli italiani sono bravi...
Gli italiani sono bravi e non devono avere paura del futuro, purché mantengano      l’ottimismo e orientino l’nnovazione a ridurre i costi di gestione.                           

 

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