C’è plastica e plastica
Conversazione sul concetto di riciclato con Karel Krpan.
M. Costanza Candi
Il Gruppo FKuR, specializzato nello sviluppo e produzione di compound bioplastici e riciclati destinati all’imballaggio flessibile, applicazioni tecnologiche, compound TPE e PP/PE, offre al mercato un’esperienza ad ampio spettro sul tema del packaging e dei materiali sostenibili. Ne racconta a ItaliaImballaggio Karel Krpan, sales agent per l’Italia di FKuR Kunststoff GMBH, condividendo una serie di riflessioni che partono dal rapporto tra riciclo industriale e post consumo, per spaziare verso questioni normative e trend di mercato.
Informare per scelte sostenibili e consapevoli
«Il primo problema che si dovrebbe affrontare - esordisce Krpan - è la capacità del consumatore di distinguere tra plastica post consumo e plastica post-industriale. Le plastic tax, di cui i cittadini sentono parlare quotidianamente, si riferiscono infatti alla plastica post consumo, che è tipicamente ibrida, contaminata e richiede un complesso ciclo di lavorazione per essere riciclata. L’aspetto distorsivo a livello di materiali è quindi determinato da un mercato che richiede plastica riciclata senza distinguere o addirittura ignorando l’esistenza del post-industriale, un materiale più pulito e omogeneo. Lo scarto industriale infatti è spesso rappresentato da un singolo materiale, con un basso grado di contaminazione che viene inserito nell’ampio concetto di riciclato quando, nei fatti, potrebbe essere considerato materia prima seconda».
Secondo Krpan nel mercato si è apparentemente creata una bolla, in cui il materiale post-industriale sembra assumere un valore commerciale molto elevato, poiché comoda alternativa al più problematico post consumo.
«Ci sono denominazioni fantasiose come “contiene riciclato interno” che, per paradosso, potrebbero spingere a un deliberato eccesso di sfrido» prosegue Krpan. «Il mercato finisce quindi per cercare materiale riciclato di qualunque tipo, purché dichiarato tale.»
Krpan prosegue poi ricordando il disappunto di un converter che, dopo aver mandato un campione di film di LDPE post consumo al suo cliente, è stato redarguito per il fatto che fosse opaco, avesse odore e non fosse bello come quello di altri concorrenti che proponevano un generico “riciclato”.
«Bisogna rendersi conto che nelle poliolefine come l’LDPE e HDPE con l’attuale stato di riciclo meccanico del post consumo è estremamente difficile ottenere un prodotto “pari” al vergine. Se si cerca un’alternativa sostenibile alle performances del vergine è consigliabile rivolgersi ai prodotti biobased o a soluzioni ibride, come quelle permesse dai coestrusi. Va detto che esistono certificazioni di filiera che distinguono con serietà l’utilizzo di plastica post-consumo o quella post-industrial».
L’impatto della normativa
Per capire meglio il meccanismo, Karel Krpan porta il ragionamento all’estremo, ipotizzando che non ci sia uno strumento univoco Europeo capace di vigilare in tempo reale. Questo eviterebbe infatti che materiale vergine venga impropriamente trattato per riciclato per aumentarne la qualità percepita dai clienti. La spinta all’uso di materiale riciclato è infatti determinata da leggi e regolamenti nazionali ed europei, che hanno un impatto sulle dinamiche del mercato e sulle scelte industriali. Su questo punto Krpan prosegue:
«Il Regolamento imballaggi sta superando il concetto alla base delle Direttive, provvedimento che lascia agli Stati membri ampio spazio di azione per ragioni di interesse nazionale. Un esempio classico è fornito dalle stoviglie monouso: per evitare che fossero qualificate come tali, i produttori ne hanno semplicemente aumentato lo spessore e fatto dei test di resistenza al lavaggio. Ed ecco sul mercato prodotti apparentemente lavabili e riutilizzabili, ma di fatto di qualità percepita simile a quella dell’usa e getta.»
Riciclo chimico vs riciclo meccanico
Il quadro normativo dovrebbe quindi tenere in considerazione le soluzioni tecnologiche esistenti, veicolando il mercato verso le più sostenibili in base alla tipologia di materiale e alla capacità delle imprese di disporne. È il caso del dibattito che ruota attorno al riciclo meccanico o chimico di materiale post-consumo.
«L’Europa sta opponendo una forte resistenza al riciclo chimico, anche se molto sostenuto dai gruppi multinazionali che possono mettere in campo percorsi di compensazione tra rinnovabili, decarbonizzazione e crediti. Come sappiamo infatti, il riciclo chimico permette di unire tutto il prodotto senza separare: grazie alla pirolisi, i polimeri vengono trasformati in nafta con un processo che richiede un’elevata quantità di calore. Per quanto si sa, l’Europa, in questo quadro, punta a limitare la pirolisi solo a ciò che non può essere sottoposto a riciclo meccanico, che viene preferito, ma senza definirne confini chiari. Il rischio è che una tecnologia molto energivora venga preferita a soluzioni più complesse, come la costruzione di filiere di riciclo basate su specifici materiali. Di fatto la pirolisi potrebbe essere il game changer per evitare di mandare all’incenerimento molta plastica difficilmente selezionabile, ma potrebbe anche essere un soft killer per la filiera del riciclo e di tutti gli sforzi fatti finora nello sviluppo di soluzioni monomateriale. È chiaro che l’aspetto economico, le regolamentazioni e le tecnologie disponibili faranno la differenza. Infatti oggi il monomateriale è molto richiesto da consumatori e industria, ma la domanda è: il sistema di riciclaggio riesce a riconoscere il materiale e a separarlo correttamente? Abbiamo soluzioni riciclabili o solo potenzialmente riciclabili? Molte aziende produttrici di materiali specifici hanno bisogno di una loro filiera per garantire un monomateriale correttamente separato ed è qui che il sistema deve arrivare: separare costruendo dei percorsi omogenei per i diversi materiali.»
Il ruolo dei produttori
«La responsabilità condivisa del produttore diventa quindi strategica per lo sviluppo di materiale e tecnologia di sorting per il suo corretto recupero. Una soluzione complessa in un mercato dove, al contrario, molti spingono per la soluzione più facile e d’impatto. Pensiamo ai film termoretraibili. Ha più senso un film vergine a basso spessore che richiede meno calore nei forni di retrazione o un film più spesso contenente del riciclato che richiede più energia? Sul fronte dello sviluppo tecnico quindi, le domande sono aperte e aspettano che l’Europa prenda posizione. In FKuR stiamo lavorando PER rispondere a ogni scenario. Accanto alla gamma di compound biodegradabili e compostabili Bio-Flex® e Ceroflex® per film e iniezione, distribuiamo il Green PE e Green EVA di Braskem, polimeri derivati dalla canna da zucchero sulla base del quale produciamo TPE biobased (Terraprene®) e altri compound durevoli, dotati di fonte rinnovabile (Terralene®). Di recente, infine, abbiamo introdotto materiale riciclato post consumo e post industrial di elevata qualità con qualità estetiche e funzionali particolari.»