Plastica secondo natura

Progetto Plastice: come attuare il trasferimento tecnologico nel settore delle bioplastiche. Il contributo di Aster.

plastice_image_web.pngLe ricerche sui nuovi materiali, in particolare le bioplastiche, rappresentano la nuova frontiera delle applicazioni per il packaging. In questo panorama, progetti come “Plastice”, sono casi esemplari volti alla diffusione e industrializzazione della tecnologia migliore, sia per le imprese che per l’ambiente.

Ne abbiamo parlato con Daniela Sani di Aster, consorzio per l’innovazione costituito dalla Regione Emilia-Romagna, dalle Università regionali, CNR ed Enea, partner del progetto Plastice.
 
Come nasce Plastice, chi ne fa parte e come è finanziato?
Il progetto nasce nel 2011 e verrà portato a compimento nel 2014. È co-finanziato con fondi strutturali europei di cooperazione (programma Central Europe) per un totale di 2,5 milioni di euro. Capo cordata, nonché ideatore del progetto, è l’Istituto Nazionale di Chimica di Slovenia, mentre tra gli altri partner rientrano l’Università di Bologna, il Centro Polacco di Ricerca e Sviluppo sul Packaging, l’Università Slovacca di Tecnologia di Bratislava, SLOPAK, Azienda Slovena per la Gestione dei Rifiuti plastici e Novamont, colosso italiano nel settore chimico e, più di recente, del settore della cosiddetta chimica verde. In totale, si contano tredici partner tra aziende, università e centri di ricerca, provenienti da quattro differenti paesi europei.

Quali sono gli scopi di Plastice e che tipo di azioni prevede?
Intende promuovere lo sviluppo e l’utilizzo di soluzioni sostenibili ed eco-compatibili nell’industria che produce e utilizza le plastiche, favorendo in particolare l’uso delle bioplastiche. Per questo, Plastice si propone di identificare e rimuovere gli ostacoli che si frappongono a un’ampia e rapida diffusione dell’uso delle plastiche sostenibili, con particolare riferimento alle  biodegradabili e a quelle derivate da risorse rinnovabili; in pratica costituire una filiera sostenibile delle bioplastiche. Tra le altre cose, è prevista la messa a punto di un pacchetto di informazioni e consulenza che metta insieme capacità di ricerca complementari, fornite da diverse organizzazioni a beneficio delle aziende. Attraverso questo strumento sarà data l’opportunità ai produttori di plastiche tradizionali di approcciare nuove tecnologie e nuovi metodi di produzione basati su risorse rinnovabili. Aster, in particolare, si occupa di sviluppare le migliori strategie comunicative per far sì che il progetto e i suoi scopi vengano divulgati a tutti gli attori della filiera.

Quali sono le maggiori criticità?
La capacità di diffondere soluzioni innovative e sostenibili (da fonti rinnovabili e/o biodegradabili) tra i produttori di imballaggi e di altri prodotti in plastica, dipende dalle aspettative delle industrie utilizzatrici (settore alimentare, vendita al dettaglio, settore medico, etc) combinata con una spinta da parte di consumatori finali correttamente informati. Finché questi soggetti non saranno convinti dei benefici economici e ambientali associati all’introduzione di imballi e semilavorati sostenibili, non si raggiungerà la massa critica necessaria per rendere praticabile su larga scala l’adozione di tali plastiche. Come risultato i prezzi dei prodotti in bioplastica rimarranno non competitivi rispetto a quelli realizzati con plastiche tradizionali, ostacolando non solo l’uso, ma anche la commercializzazione di possibili nuovi prodotti basati su nuovi ritrovati della ricerca

Che tipo di contributo possono dare le aziende del packaging per diffondere l’uso di materiali bioplastici?
Quello degli imballaggi è proprio il settore industriale con il più grande potenziale di impiego immediato di bioplastiche, basti considerare tutti gli ambiti in cui viene utilizzato il tradizionale PET derivato dal petrolio: dai contenitori alimentari alle confezioni di prodotti di vario tipo, fino alle reti e schiume. Un atteggiamento più attento e responsabile, tanto da parte delle aziende produttrici quanto da parte di quelle che costruiscono e commercializzano macchine per il confezionamento, è la chiave per il successo di un impiego industriale sempre più ampio. Non si tratta però solo degli imballaggi: le bioplastiche possono essere adottate per numerose altre applicazioni monouso di tipo generale (piatti, bicchieri, tazze e posate usa e getta) o di tipo speciale (accessori sportivi, agricoltura, materiale medico monouso).

In merito allo specifico settore dell’imballaggio, quali sono le richieste principali da parte delle aziende?
È necessario che il polimero di bioplastica (quindi di derivazione rinnovabile) abbia le stesse caratteristiche di quello derivato dal petrolio in termini di resistenza, struttura e proprietà elastiche, così da consentire alla filiera di utilizzare gli stessi impianti, abbattendo eventuali costi di riconversione o implementazione di nuove linee. Questo significa che se, ad esempio, si ricerca per l’imballaggio alimentare un materiale che sia compostabile a fine vita, così da risultare a impatto zero per l’ambiente, esso deve tuttavia avere eccellenti caratteristiche di durata e isolamento, per consentire una corretta “shelf life” dei prodotti alimentari imballati. L’aspetto più positivo è che tali materiali e le tecnologie per produrli esistono già: si tratta solo di iniziare a impiegarli su scala industriale. In questo senso, è fondamentale all’interno di Plastice, la presenza di aziende come Novamont, da anni impegnata nella ricerca e nello sviluppo di materiali all’avanguardia.

A parte i vantaggi per l'industria dell’imballaggio, quali opportunità possono offrire le bioplastiche per l’Italia?
Le bioplastiche possono trovare applicazione in innumerevoli campi, poiché è ormai provato che molte plastiche di largo impiego come polipropilene, polietilene, poliesteri, poliuretani ecc., attualmente di origine petrolifera, possono essere ottenute a partire (totalmente o in parte) da fonti rinnovabili. Si possono quindi prevedere utilizzi in ambiti che spaziano dall’agricoltura all’automotive. Per realizzare le bioplastiche, come per esempio i poliesteri PHA (poliidrossialcanoati), possono essere utilizzati gli scarti dell’industria agricola, e questo rende il nostro Paese un bacino potenzialmente interessante da cui recuperare le materie prime per la produzione del materiale. Su questo versante, la nota positiva è che l’Italia, rispetto agli altri paesi Europei e  in particolare quelli dell’area centro-orientale, dimostra una sensibilità avanzata. Oltre all’istituzione di progetti quali Plastice, ne sono prova concreta la creazione di associazioni e consorzi per l’utilizzo, la promozione e la certificazione delle bioplastiche, come il Consorzio Italiano Compostatori (www.compost.it) o l’Associazione Italiana Bioplastiche (www.assobioplastiche.org). Anche dal punto di vista legislativo, gli ultimi anni hanno visto un interesse crescente della Cosa Pubblica al tema, che si traduce in normative sempre più attente. Senza dimenticare la creazione del recente Cluster Tecnologico Nazionale sulla Chimica Verde promosso da Novamont, ENI-Versalis, Mossi e Ghisolfi e Federchimica. In questo senso, possiamo dire che l’Italia assume un ruolo centrale in ambito europeo con presenza importante anche in commissioni di lavoro strategici.

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