September 2004
Stefano Lavorini
Dismantlement

Once upon a time in Milan there was an industrial complex whose enormous, anonymous ugliness was only matched by its illustrious name.
I have always seen it empty, never animated by any type of activity, dumbly bearing witness to a sad tale of Italian industry, by many forgotten, for many worthy of being forgotten.
For years it has appeared to me as calmly and dignifiedly awaiting a new use and new occupants, as if wishing to bring continuity to a past in which Italy, in the pharmaceutical field, could say it counted for something.
Venerable hospice of skill and capacity, of the will to get on and do things and to carry on regardless, it has stood there castled, with solid walls, passages and large squares, defying the changes of globalizing urban modernism. Everything was embodied in that long grey iron gate, saddening in its eternally remaining shut, in front of which though noone dared park, because it still at any moment seemed ready to swallow up and disgorge men and machines.
Glorious ship at anchor, fated to no longer return to sea, except for to only decline its own melancholic shipwreck, its own surrender. What an end! Hence the red tiled roofs, the massive cemented walls, the ferreous warehouses, the bituminous clearings, along with the echo of voices of many people who worked, smiled and cried there, who demonstrated their valor and showed their rage there have all gone to the bottom. Voracious proboscidean mechanical monsters, vehement in their indifferent roaring, have doggedly laid waste to the same, putting an end to that improbable endurance. Now only a chewed up wall with its old iron railings remains to defend the ruined battlefield, to mark its perimeter off from the roadway. Inside, mountains of rubble in perennial dusty migration: desert dunes that appear and disappear, to mark the progress of a destructive will that knows no remorse. An alienating yet fascinating sight. Every now and then I, along with other spellbound passers-by, stop to stare, hypnotised by the light that floods in to occupy the space that was previously taken up by the shadow of high walls: metaphor of life, of an eternal doing and undoing, to which we all each in our own way strive to give sense to.
I then pass on, with the hope that something - at least in our memory - might be saved, that something - at least in some of us - remains to counter the recurrence of an excess of absurdities.


C’era una volta, a Milano, un complesso industriale di tanta anonima bruttezza, quanto di illustre nome.
L’ho sempre visto vuoto, inanimato di qualsiavoglia attività, testimonianza muta di una triste storia della nostra industria, da molti dimenticata e, per molti, da dimenticare.
Per anni mi è apparso pacatamente e dignitosamente in attesa di nuovo uso e di nuovi ospiti, come a voler dare continuità a un passato in cui l’Italia, in campo farmaceutico, poteva dire di contare.
Venerando ostello di ingegno e capacità, di voglia di fare e di non mollare, stava arroccato, con mura solide, varchi e piazzali, sfidando i cambiamenti di una globalizzante modernità urbana. Tutto era in quella lunga cancellata di ferro grigio, triste nel suo restare immancabilmente serrata, di fronte alla quale però nessuno osava parcheggiare, perché sembrava ancora pronta, in ogni momento, a ingoiare e a sputare fuori uomini e macchine.
Gloriosa nave alla fonda, non ha avuto in sorte di riprendere il mare, se non per disegnare il proprio malinconico naufragio, la propria resa. Che finale! Sono così colati a picco i tetti dalle tegole rosse, i muraglioni cementati, i capannoni ferrosi, gli spiazzi bituminosi, insieme all’eco di voci e ricordi di tanta gente che lì ha campato, sorriso e pianto, che lì ha speso valore e rabbia. Voraci mostri meccanici “proboscidedotati”, impietosi nel loro indifferente rombare, ne hanno avuto ragione con caparbio accanimento, mettendo fine a quell’improbabile durare.
Ora resta a difendere lo scempiato campo di battaglia, a delimitarne i confini rispetto alla strada, uno sbocconcellato muretto, con tanto di vecchie inferriate. All’interno, montagne di calcinacci, in perenne polverosa migrazione: dune di deserto che appaiono e scompaiono, a segnare il progredire di una volontà distruttiva che non conosce rimorso.
Spettacolo affascinante ed estraniante. Ogni tanto mi fermo, con altri stupiti passanti, ipnotizzato dalla luce che dilaga a occupare lo spazio che, prima, era dell’ombra di alti muri: metafora della vita, di un eterno fare e disfare, a cui, ognuno a modo suo, lavora a dare un senso.
Poi, procedo oltre, con in cuore la speranza che qualcosa - almeno nella memoria - si salvi, che qualcosa - almeno in alcuni - resti a contrastare il ripetersi di troppe assurdità.